Editoriale – Urso ed Elkan giocatori di squadre dello 0 a 0

È radicalmente cambiato il mondo da quando l’avvocato Gianni Agnelli, proprietario della Fiat, sosteneva che «ciò che va bene per la Fiat, va bene per l’Italia», concetto che egli stesso avrebbe successivamente addolcito con «quello che è male per Torino è sempre male per l’Italia».

Resta il fatto, però, che gli italiani, per tenere in piedi la Fiat, oggi Stellantis, hanno tolto dalle proprie tasche 220 miliardi di euro in 40 anni. Quando la Fiat era in crisi, gli Agnelli chiedevano ai Governi cassa integrazione o incentivi economici minacciando di chiudere gli stabilimenti. Il ricatto ha sempre funzionato perché, pur di evitare i licenziamenti, i vari ministeri competenti aprivano i cordoni della borsa e il denaro pubblico finiva all’Avvocato.

Cambiano i protagonisti, ma il giochino funziona ancora oggi. Da un lato c’è il proprietario di Stellantis, John Elkan, che chiede soldi; e dall’altro, il ministro dello Sviluppo economico, Adolfo Urso, che glieli dà.

Diceva lo scrittore George Bernard Shaw (1856-1950) che «chi non può cambiare idea, non può cambiare nulla». Ecco il ministro Urso ci sembra che non cambi nulla perché non può cambiare idea. Da politico di lungo corso avrà certamente l’ambizione di raggiungere qualche obiettivo per essere ricordato dai posteri. Chissà, magari immagina di incidere sulla politica industriale del futuro convertendo Stellantis da casa automobilistica a fabbrica di vetture per lo spazio, visto che ha anche la delega per sviluppare l’economia spaziale.

Per il momento però segue le orme dei suoi predecessori e concede fondi ad Elkan a tre condizioni: nessun licenziamento, produzione di citycar a Pomigliano e di batterie per veicoli elettrici (giga factory) a Termoli. Tanto paga Pantalone, il cittadino italiano.

La merciaia, se sbaglia ad acquistare calze e mutande che i clienti non comprano, fallisce. Il fornaio, se non offre una buona qualità di pane, abbassa la saracinesca. Il ristoratore, se non presenta menù aggiornati e a prezzi competitivi, cessa l’attività. L’avvocato, se perde troppe cause, chiude lo studio.

Quanti, artigiani, piccoli e medi imprenditori, liberi professionisti sono finiti sul lastrico con le politiche dell’Unione europea alle quali l’Italia ha dovuto sottostare?

Certo l’industria dell’automobile e il suo indotto incidono per il 5 per cento sul Prodotto interno lordo. Un dato che va tenuto ben presente; ma è proprio per la sua importanza che l’attuale Governo dovrebbe dare un segno di discontinuità con quelli che l’hanno preceduto.

Perché i soldi che il ministro Urso ha già promesso di dare a Stellantis non vengono messi nelle mani di qualche altro soggetto in grado di rimettere in piedi l’industria dell’automobile?

Possibile che non si trovi un manager o un imprenditore capace di rilanciare un’industria automobilistica interamente italiana? Si potrebbe ripartire da un’utilitaria poco costosa nel prezzo e nella manutenzione. Il nostro Paese ha tutto: maestranze tra le più qualificate al mondo, dirigenti, ingegneri, tecnici, designer, esperti di marketing e persino concessionari con altissima professionalità.

Un tale patrimonio perché deve essere messo a servizio di stranieri?

Elkan s’è dimostrato incapace di scegliersi esperti collaboratori ed ha quindi portato al collasso la sua azienda ed Urso, con i suoi consulenti, non ha saputo, almeno sino ad ora, rilanciare una politica industriale degna di tale nome.

Entrambi si sono dimostrati giocatori in squadre dello 0 a 0.

È folle insistere nella produzione di vetture elettriche che non hanno mercato. Non è solo l’ elevato costo, la lentezza per ricaricare le batterie e la scarsa autonomia a frenarne l’acquisto. Il lettore provi a parlare con qualche vigile del fuoco che, a denti stretti, gli confermerà quanto vacillante sia il senso di sicurezza di quegli stessi (non pochi) proprietari di vetture elettriche che se le sono viste, inspiegabilmente, andare in fumo.

Sappiamo che il Governo staccherà un primo assegno di 640 milioni a Stellantis, pronto evidentemente a firmarne altri, solo perché è stato allontanato l’ex manager che ha mandato a picco l’azienda.

Ci auguriamo di sbagliare, ma temiamo che sia difficilmente realizzabile il rilancio dell’industria italiana affidato ad un ricco possidente e ad un ministro diventato tale per meriti conseguiti nella lunga militanza all’interno del proprio partito.

didascalia: da Pixabay

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